Quando pensiamo alla globalizzazione pensiamo prima di tutto alla crescita del commercio dei beni di consumo. Compriamo sempre più televisori coreani, auto giapponesi, elettronica statunitense. Quando viaggiamo, guardiamo con una certa ammirazione le vetrine del nostro Made in Italy sparse per i centri cittadini delle principali città del mondo.
In realtà, la globalizzazione dei mercati non riguarda esclusivamente il commercio dei beni di consumo, ma coinvolge anche e soprattutto lo scambio di quei componenti e quei semilavorati (i beni intermedi) che alimentano network di produzione a scala transnazionale. In pochi anni abbiamo scoperto che le automobili e i computer progettati negli Stati Uniti vengono di fatto assemblati in Messico o in Cina. Consideriamo normale che gran parte dei capi di abbigliamento disegnati e venduti a Hong Kong siano confezionati nell’area del delta del Fiume delle Perle.
Accettiamo (anche se con diversi pro e contro) che una parte importante delle scarpe italiane, un prodotto di punta nell’export nazionale, siano cucite e incollate nei paesi dell’Est Europa.
Il fenomeno non è di questi anni, è vero. È altrettanto vero, però, che non aveva mai assunto una tale dimensione.
Ciò che ha reso possibile la creazione e il consolidamento di questi network produttivi su scala internazionale è stato l’abbattimento sistematico dei costi di coordinamento delle filiere produttive e la riduzione dei costi della logistica e del trasporto. La diffusione delle tecnologie di rete, anche nelle economie emergenti, rende possibile organizzare reti produttive affidabili e relativamente sincronizzate. Il che consente di ottimizzare la divisione del lavoro su scala internazionale.
Nonostante le trasformazioni di questi anni, il modo in cui guardiamo al vantaggio competitivo delle nazioni sconta ancora oggi un sguardo ereditato dal passato. L’economista Hal Varian, in un articolo apparso sul New York Times, si è chiesto che senso ha oggi dire che gli Stati Uniti hanno un vantaggio competitivo nella produzione di computer? Se guardiamo al processo produttivo dell’iPod ci rendiamo conto che i suoi 451 componenti sono il risultato di una divisione del lavoro su scala globale.
La domanda da farsi è se le aziende americane che producono iPod e elettronica di consumo sono posizionate in modo corretto nelle catene globali del valore. Se sono capaci, in altre parole, di presidiare quelle fasi del processo che garantiscono un valore aggiunto consistente e difendibile nel tempo (nel caso dell’iPod di Apple la risposta è sicuramente positiva).
Il ragionamento si applica anche all’economia del nostro paese. I dati Istat ci dicono che nel primo trimestre 2008 il 36% delle importazioni della provincia di Belluno vengono dalla Cina. Difficile pensare che si tratti solo di giocattoli e di magliette: in realtà il successo dell’occhiale italiano dipende anche dall’integrazione con il sistema manifatturiero cinese.
I protagonisti di questo processo di riorganizzazione industriale sono le medie imprese del Made in Italy, quelle imprese che sono state capaci di internazionalizzare le reti distributive così come i processi produttivi combinando insieme qualità manageriale e spinta imprenditoriale. Secondo i dati Mediobanca, nel decennio 1996-2005 il fatturato delle circa 3.984 “medie imprese” presenti in Italia (individuate nella classe dimensionale fra 50 e 500 addetti, e non controllate da grandi imprese) è cresciuto del 50%, il valore aggiunto del 65%, l’export di oltre il 70%.
Questo processo di apertura su scala internazionale ha messo in moto un’evoluzione sostanziale dei punti di forza delle imprese italiane. Ancorate alla tradizione artigianale e manifatturiera che ha fatto la forza dei nostri distretti industriali, le imprese leader del nuovo Made in Italy mostrano una nuova intelligenza manageriale sempre più terziaria.
Una ricerca promossa da Banca Intesa e Venice International University ha messo in evidenza tre fattori in grado di qualificare le nuove strategie di impresa. Il primo è il design inteso sia come investimento sulla riconoscibilità estetica del prodotto, sia come progettazione di sistemi modulari in grado di evolvere nel tempo e di facilitare i processi produttivi a scala internazionale.
Fonte: Il Sole24ore.com